Dopo una battaglia lunghissima ed estenuante contro un grave male, lo scorso mese di aprile è mancato all’affetto di amici e parenti il professor Patrizio Guandalini. Appena appresa la triste notizia, ho subito sentito la necessità di scrivere qualche umile riga in ricordo di colui che non è stato solo un insegnante al liceo, ma una persona da cui trarre insegnamenti puri e profondi. Tutti sapevamo della sua difficile condizione, non ne ha mai fatto mistero, ed ha sempre lottato con una voglia di vivere che mi ha davvero sorpreso e che mai scorderò. Lui combatteva, combatteva continuamente, ed in classe notavamo i giorni in cui stava bene e quelli in cui il male lo prendeva in contropiede. Eppure non mollava. Col suo zaino in spalla, sempre impeccabile, quei baffetti sul viso che rendevano intrigante la sua figura, dandogli un tocco di classe d’altri tempi. E poi, all’uscita, sulla sua bici o sulla sua moto.
Una persona a tutto tondo, impossibile da conoscere bene in poco tempo. Ed il tempo a noi non è mai bastato. Lui sapeva che le cure avrebbero sottratto molte ore all’insegnamento e forse anche per questo ha sempre seguito un percorso suo. A lui credo non interessasse seguire il programma, lui voleva spiegare ciò che gli piaceva, così da essere sicuro di trasmettere tutto il suo amore per la filosofia. Non gli sarò mai abbastanza grato per tutte le lezioni sul culto dionisiaco. Quando lo conobbi capii subito che quella persona avrebbe lasciato un segno in me: non era un professore qualsiasi, lui era Patrizio Guandalini. Lui ci credeva in ciò che spiegava, era un ribelle, un sovversivo. Voleva una rivoluzione ma, intendiamoci, non per portare ad un nuovo inedito modello di scuola, bensì per tornare all’insegnamento come lo intendevano i filosofi dell’antica Grecia. Noi, la sua classe dello scientifico, sezione AS, eravamo i suoi discepoli. Chi lo intendeva era libero di seguirlo, gli altri potevano semplicemente studiare per ottenere un bel voto. L’impatto con la sua persona, così forte e decisa, non è certo stato sempre facile. A volte era difficile capire dove volesse arrivare, bisognava solo seguirlo, alla meta tutto ci sarebbe stato più chiaro. Poi la malattia interveniva spesso, sottraendogli le energie necessarie per guidare la sua nave verso la rotta prefissata.
Quando nel marzo dell’anno scorso ricevetti la notizia che non avrebbe più insegnato, mi fu inflitto un grave colpo. Ebbi paura, paura che la sua luce si stesse spegnendo. In quel clima surreale e distopico, dove le scuole chiudevano ed un male ignoto uccideva le persone, mi sentii perso. Dopo qualche giorno, forse qualche settimana, trovai la forza per scrivergli. Avevo paura di ricevere tristi notizie, ed invece lo trovai ancora una volta forte, gagliardo come sempre. In quel momento sorrisi. Certo, ero molto dispiaciuto di non poter concludere la quinta con lui, ma almeno stava bene, o perlomeno non peggio del solito. I suoi messaggi su Instagram e Facebook mostravano come stesse lottando contro un uragano davvero grande. L’ultimo incontro col professore è stato davvero casuale ed inaspettato: una mattina di fine agosto stavo uscendo per fare un giro in bici, ed ecco che mi passa davanti, con la sua bici da corsa ed i suoi capelli brizzolati al vento, il Guanda! Lì, davanti a casa mia nelle campagne di Villa Saviola! Lo inseguii e dovetti faticare non poco per raggiungerlo ed affiancarlo. Che forza quell’uomo. Parlammo un po’, volle sapere del mio esame, dell’università. Ricordo che mi fece i complimenti per la mia bici, una citybike da me restaurata e modificata. Ora quella bici porterà in sé per sempre un ricordo ed un vanto, ovvero quello di aver avuto l’onore di essere al pari col Guanda. Ecco, se questo racconto fosse un film, vorrei fosse questa la scena finale: noi due in pari, a tutta velocità, a bordo delle nostre amate bici, in una calda mattinata di sole. E poi, all’incrocio di Vie Nuove, le nostre strade si separano, ci salutiamo, ci promettiamo di incontrarci per un caffè. Tanto la pandemia passerà.
Devo confessare che porto in me il dolore per due promesse che non sono riuscito a mantenere: la prima è questa di cui vi ho appena parlato, di un caffè che non potremo più prendere; la seconda è quella di non essere riuscito ad organizzare una cena con tutti i miei compagni di classe in sua presenza. Quando la organizzammo a giugno non poté partecipare per motivi di salute, così gli promisi che ne avremmo organizzata una ad hoc e ci saremmo stati tutti. Questa promessa non la scorderò mai. Ed eccoci qui, ora, nel giorno più triste. Sono sicuro che se potesse leggere questa mia lettera si troverebbe in profondo disaccordo. Probabilmente mi direbbe: “Ponti, ma cosa scrivi?!”. Lui amava la vita, amava la positività e ne aveva davvero un bisogno vitale. Sono anche sicuro che egli, ora, ha realizzato il suo sogno. Adesso Lassù potrà discutere di filosofia con Platone, Aristotele e Kant e, quando vorrà cambiare prospettiva, potrà fare un giro in bici con Coppi, Bartali e Pantani. Non so che rapporto avesse con la religione ma io, da credente, gli auguro di trovare tutta la gioia immaginabile, ovunque si trovi. Sono sicuro che in molti sentiranno la sua mancanza, il vuoto di una persona che ha amato il Sapere, che ha amato l’Arte, che ha amato la Vita.
È così che il nostro prof, con la sua cultura ed i suoi versi, ha eretto “un monumento più duraturo del bronzo”; per sempre la sua memoria sarà un faro nell’impetuoso mare dell’esistenza.
Buon viaggio Prof!
Francesco Ponti
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